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Cinema di Vincenzo Spalice Sommersi nel grigio di un non luogo del nord-est Italia, tra case sparse, costruite lungo una superstrada, in mezzo ad enormi depositi di legna, centri commerciali e giganteschi neon pubblicitari, vivono Rino e Cristiano Zena. Sono padre e figlio, e sono una famiglia perché la madre se n’è andata. Cristiano potrebbe essere un adolescente come tutti gli altri, ma è Rino a non essere un padre come gli altri: lavoratore precario, alcolista, razzista e violento, emarginato e tenuto sotto controllo dall’assistente sociale, educa il figlio come può, inculcandogli principi sbagliati, maschilisti, xenofobi, spesso violenti. Il loro è un rapporto d’amore fortissimo, tragico e oscuro. Cristiano ama suo padre, lo considera il suo faro, la sua guida spirituale. Il film non tradisce le attese, ma si colloca un gradino più in basso rispetto a “Io non ho paura” e “Mediterraneo”. Tra gli aspetti che non convincono del film ci sono l’incupimento eccessivo del quadro generale ed un certo sovraccarico di “disvalori”, che, seppure trovano ragion d’essere in certi fatti di cronaca dei giorni nostri, finiscono per confinare i tre protagonisti fra gli emarginati “destinati” alla tragedia e all’oblio. Anche la scelta di adeguare stile e narrazione a un codice pseudo-realistico rischia di schiacciare la storia sotto la cappa della disperazione sociologica, dove tutto sembra preda di un male metafisico e indistinguibile. Spettacolare, invece, è la cura per gli aspetti emozionali, soprattutto nella descrizione del filo invisibile che lega padre e figlio, un filo indistruttibile fatto di un amore difficile da capire, permeato di un’energia animale, che si esprime con un codice atipico, ma che alla fine commuove.
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Num 87 Gennaio 2009 | politicadomani.it
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